"Aveva
una speciale capacità d’odio senza alterazioni fisionomiche. Era, forse, un
timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un imbecille. Si sentì
mortificato, stanco. L’antica ossessione della folla: l’orrore de' compagni di
scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo
sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, due a
due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga:
alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il disgusto che lo
aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi
del dopo guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti uomini: per le vie di
Pastrufazio s’era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità
inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno."
Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, 2008.
Se la parola perduta è perduta, se la parola spesa è spesa Se la parola non detta e non udita E' non udita e non detta; Sempre è la parola non detta, il Verbo non udito, Il Verbo senza parola, il Verbo Nel mondo e per il mondo; E la luce brillò nelle tenebre e Il mondo inquieto contro il Verbo ancora Ruotava attorno al centro del Verbo silenzioso.
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà La parola? Non qui, che qui il silenzio non basta Non sul mare o sulle isole, né sopra La terraferma, nel deserto o nei luoghi di pioggia, Per coloro che vanno nella tenebra Durante il giorno e la notte Il tempo giusto e il luogo giusto non sono qui Non v'è luogo di grazia per coloro che evitano il volto Non v'è tempo di gioire per coloro che passano in mezzo al rumore e negano la voce
Pregherà la sorella velata per coloro Che vanno nelle tenebre, per coloro che ti scelsero e si oppongono A te, per coloro che sono straziati sul corno fra stagione e stagione, tempo e tempo, Fra ora e ora, parola e parola, potenza e potenza, per coloro che attendono Nelle tenebre? Pregherà la sorella velata Per i fanciulli al cancello Che non lo varcheranno e non possono pregare: Prega per coloro che ti scelsero e ti si oppongono
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Pregherà la sorella velata fra gli alberi magri di tasso Per coloro che l'offendono e sono Terrificati e non possono arrendersi E affermano di fronte al mondo e fra le rocce negano Nell'ultimo deserto e fra le ultime rocce azzurre Il deserto nel giardino il giardino nel deserto Della secchezza, sputano dalla bocca il secco seme di mela.
“Sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore. (…)
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede. Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui “fare” qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere.”
Enzo Bianchi, Dare senso al tempo: le feste cristiane, Qiqajon, 2003.
«Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Tu eri dentro di me ed io ero fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace».
Ci credete che è per questo che ho gridato? Io ora ne sono quasi convinto. Mi appariva chiaro che la vita e il mondo, in una certa maniera, adesso dipendevano da me. Si poteva dire perfino così, che il mondo adesso era come se fosse stato fatto soltanto per me: bastava che mi sparassi e il mondo non sarebbe più esistito, per lo meno per me. Per non parlare poi del fatto che, forse, effettivamente per nessuno sarebbe più esistito nulla dopo di me, e tutto il mondo, non appena si fosse spenta la mia coscienza, sarebbe immediatamente svanito come uno spettro, come un esclusivo attributo della mia coscienza, e si sarebbe vanificato poiché, forse, tutto questo mondo e tutte queste persone non sono altro che me stesso.
Essi glorificavano la natura, la terra, il mare, i boschi. Amavano comporre canzoni gli uni sugli altri, lodandosi come bambini; erano canzoni di una estrema semplicità, ma esse sgorgavano dal cuore e toccavano il cuore. Né ciò accadeva solo nei loro canti: pareva che essi trascorressero la vita intera a compiacersi l'uno dell'altro. Era una sorta di innamoramento reciproco, totale e generale. Taluni loro canti, solenni ed entusiastici, quasi non li comprendevo affatto. [...] E quando essi mi guardavano col loro dolce sguardo pervaso d'amore, quando sentivo che stando insieme a loro anche il mio cuore diventava altrattanto innocente e sincero del loro, allora non rimpiangevo di non comprenderli. Una sensazione di pienezza di vita mi faceva mancare il respiro e in silenzio li veneravo.
***
Essi scoprirono il dolore e presero ad amarlo, erano assetati di sofferenza e dicevano che la verità si raggiunge soltanto attraverso la sofferenza. Allora tra loro apparve la scienza. Quando essi furono diventati cattivi cominciarono a parlare di fratellanza e di umanità e compresero queste idee. Quando furono diventati colpevoli inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici per difenderla, e per far osservare i codici installarono la ghigliottina. Essi si ricordavano a malapena di ciò che avevano perduto e non volevano neppure credere che un tempo erano stati innocenti e felici. Essi ridevano perfino della possibilità di questa loro precedente felicità e la definivano un sogno.
Dicevo loro che ero io, io solo, il colpevole di tutto; che io avevo portato fra loro la corruzione, l'infezione e la menzogna! Li supplicavo di inchiodarmi alla croce e insegnavo loro come costruire la croce. [...] Ma essi si limitavano a ridere di me e alla fine presero a considerarmi un mentecatto. Essi mi giustificavano, dicevano che avevano ricevuto da me soltanto ciò che essi stessi desideravano e che tutto quello che avveniva ora non avrebbe potuto non avvenire. Infine mi notificarono che stavo diventando pericoloso per loro e che, se non avessi taciuto, mi avrebbero rinchiuso in manicomio.
***
Ed ecco che da allora io vado predicando. E inoltre amo coloro che ridono di me più di tutti gli altri. Perché sia così, non lo so e non sono in grado di spiegarlo, ma pazienza. Loro dicono che già mi smarrisco, e se già ora mi smarrisco, cosa accadrà in seguito? E' la pura verità, mi smarrisco e, forse, in seguito le cose andranno ancor peggio. [...] Questa è una vecchia verità, ma c'è però una novità: io non posso smarrirmi molto. Perché io ho visto la verità e ho visto e so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la capacità di vivere sulla terra. Io non voglio e non posso credere che il male sia la condizione normale degli uomini. Eppure tutti loro non fanno che ridere di questa mia fede. Ma come faccio a non crederci: io ho visto la verità, non l'ho escogitata col mio cervello, ma l'ho vista, l'ho vista, e la sua immagine vivente ha colmato la mia vita in eterno. L'ho vista in una tale compiuta interezza che non posso credere che essa non possa esistere tra gli uomini. E così, come posso smarrirmi?
“…Chissà quante altre cose dovevano aver fatto e poi smesso di fare nella loro vita. Chissà quante idee avevano cambiato e quante bandiere avevano sventolato. Più li guardavo e più mi era possibile capire che nel loro mondo di adulti erano diventati l’esatto contrario di quello che avevano sognato di diventare da giovani. Mi sembrava di capire che quello che contava di più per loro adesso erano i valori che avevano più detestato e più deprecato e più odiato in gioventù. E non potevo dargli torto perché è così che si fa a stare al mondo. La ricerca della felicità.”
Racconto dell'immigrazione dal cimitero di Lampedusa, dal programma “Che tempo che fa” del 20 maggio 2009, RaiTre
Nasce tra i clandestini, il suo primo grido è coperto dal rumore del giro delle eliche. Gli staccano il cordone e senza fare il nodo lo affidano alle onde. I marinai li chiamano Gesù, questi cuccioli nati sotto Erode e Pilato messi insieme.
Niente di queste vite è una parabola, nessun martello di falegname batterà le ore nell'infanzia e i chiodi nella carne.
Nasce tra i clandestini l'ultimo Gesù, passa da un'acqua di placenta a quella del mare senza terra ferma, perché vivere ha già vissuto e dire ha detto, e non può togliere una spina dai rovi che incoronano le tempie: sta con quelli che esistono il tempo di nascere, va con quelli che durano un'ora.
Siamo gli innumerevoli - raddoppia ogni casella di scacchiera - lastrichiamo di corpi il vostro mare per camminarci sopra; non potete contarci: se contati aumentiamo, figli dell'orizzonte che ci rovescia a sacco. Nessuna polizia può farci prepotenza più di quanto già siamo stati offesi. Faremo i servi, i figli che non fate, le nostre vite saranno i vostri libri di avventura. Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino, l'odore che perdeste, l'uguaglianza che avete sottomesso. Da qualunque distanza arriveremo a milioni di passi, noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso. Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l'insulto. Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo, noi siamo il rosso e il nero della terra, un oltremare di sandali sfondati, il polline e la polvere nel vento di stasera.
Uno di noi, a nome di tutti, ha detto: Non vi sbarazzerete di me.
Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno.
Intorno a una grandezza solitaria
non volano gli uccelli, né quei vaghi
gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi
che il silenzio, non vedi altro che l’aria.
Perché la lampada si spense? La coprii col mantello per ripararla dal vento, ecco perché la lampada si spense.
Perché il fiore appassì? Con ansioso amore me lo strinsi al petto, ecco perché il fiore appassì.
Perché il ruscello inaridì? Lo sbarrai con una diga per averlo solo per me, ecco perché il ruscello inaridì.
Perché la corda dell’arpa si spezzò?
Tentai di trarne una nota
al di là delle sue possibilità,
ecco perché la corda si spezzò.
Rabindranath Tagore, Poesie, Newton & Compton, 1971.
ECCO IL PRIMO CAPITOLO DEL PRIMO LIBRO DELLE "CONFESSIONI" DI AGOSTINO VESCOVO D'IPPONA. SCRITTO TRA IL 397 ED IL 398.
TRADUZIONE DI CARLO VITALI, BIBLIOTECA UNIVERSALE RIZZOLI, 1974.
"Grande sei, o Signore, degno di somma lode; grande è la tua potenza, senza limiti la tua sapienza. L'uomo vuol cantare le tue lodi, l'uomo, particella della tua creazione, che porta seco il peso della sua natura mortale, del suo peccato, la certezza che Tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, particella della tua creazione, vuol cantare le tue lodi. Tu lo sproni, affinché gusti la gioia del lodarti, perché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te. Dammi grazia, o Signore, di conoscere appieno se prima ti si debba invocare o lodare; se la conoscenza di Te debba precedere l'invocazione.
Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per un'altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma “come si invocherà colui in cui non si crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?”. “Loderanno il Signore coloro che lo cercano”. Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno.
Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto conoscere. Te chiama la fede che mi desti, la fede che mi inspirasti per il tuo Figlio incarnato, per il ministero del tuo banditore."