martedì 16 ottobre 2012

Dostoevskij, estratto da L'adolescente

Una breve parte del dialogo tra Andrey Petrovic (Versilov) e il figlio Arkadij Makarovic, nella parte finale de "L'adolescente", penultimo romanzo dello scrittore russo, pubblicato nel 1875. 
Considerazioni e ripensamenti dopo la "morte di Dio".

<<Mi immagino, mio caro>> cominciò con un sorriso pensieroso <<che la battaglia sia già finita e la lotta si sia calmata. Dopo le maledizioni, le zolle di fango e i fischi è cominciato il silenzio, e gli uomini sono rimasti soli come desideravano: la grande idea di prima li ha lasciati; quella grande sorgente di forze che li ha nutriti e scaldati fino ad allora è sparita, come quel grandioso sole al tramonto nel quadro di Claude Lorrain, ma è già come se fosse l'ultimo giorno dell'umanità. E gli uomini a un tratto capiscono di essere rimasti assolutamente soli e di colpo sentono una grande povertà. Mio caro ragazzo, io non sono mai riuscito a immaginare gli uomini ingrati e istupiditi. Gli uomini rimasti orfani prenderebbero subito a stringersi l'un l'altro con più forza e amore; si afferrerebbero per la mano, comprendendo di esser rimasti soli l'uno per l'altro. La grande idea di immortalità, in tutti si rivolgerebbe verso la natura, verso il mondo, verso la gente, verso ogni erbetta. Prenderebbero ad amare la terra e la vita irresistibilmente e nella misura in cui si renderanno gradualmente conto della propria transitorietà e caducità, e di un amore particolare, diverso dal precedente. Si metterebbero a osservare e scoprirebbero nella natura fenomeni tali e tali segreti che prima non avevano neppure supposto, giacché guarderebbero la natura con nuovi occhi, con lo sguardo dell'innamorato verso l'amata. Svegliandosi correrebbero a baciarsi l'un l'altro, affrettandosi ad amare, coscienti che i giorni sono brevi e che ciò è tutto quel che rimane loro. Lavorerebbero l'uno per l'altro, e ognuno darebbe a tutti il suo, e sarebbe felice solo di questo. Ogni bambino saprebbe e sentirebbe che ciascuno sulla terra è per lui come un padre e una madre. "Sia pure domani il mio ultimo giorno" penserebbe ciascuno guardando il sole al tramonto "fa lo stesso: morirò io, ma rimarranno tutti loro, e dopo di loro i loro figli", e questo pensiero, che rimarranno gli altri a continuare ad amarsi e a trepidare l'uno per l'altro, sostituirebbe quello dell'incontro dopo la morte. Oh, si affretterebbero ad amare per soffocare la grande tristezza dei loro cuori. Sarebbero orgogliosi e audaci per se stessi, ma diventerebbero timorosi l'uno dell'altro; ognuno trepiderebbe per la vita e la felicità dell'altro. Diventerebbero dolci l'uno con l'altro, senza vergognarsene, come ora, e si accarezzerebbero l'un l'altro come bambini. Incontrandosi si guarderebbero l'un l'altro con uno sguardo profondo e comprensivo, e nei loro sguardi ci sarebbe amore e tristezza...
<<Mio caro>> si interruppe a un tratto con un sorriso <<tutto questo è una fantasia, addirittura assai inverosimile; ma io me la sono immaginata ormai troppo spesso, perché per tutta la vita non ho mai potuto vivere senza di essa, e non pensarci. Non parlo della mia fede: la mia fede non è grande, sono un deista, un deista filosofico, come tutti noi mille, suppongo ma... ma è notevole che finissi sempre il mio quadretto con una visione come quella di Heine, di "Cristo sul mar Baltico". Io non posso farne a meno, non posso figurarmelo, infine, in mezzo agli uomini rimasti orfani. Si avvicina a loro, tende loro le mani e dice: "Come avete potuto dimenticarlo?". E qui è come se dagli occhi di tutti cadesse un velo e si leva il grande inno trionfale di una nuova e ultima resurrezione...>> 
Fedor Dostoevskij, L'adolescente, Mondadori. pp. 549-550

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