giovedì 30 agosto 2012

CARLO BETOCCHI: A MANI GIUNTE


I
Ha detto: "Io sono quello che sono"
e tu non temere mai nulla: poiché,
se tu credi, non sarà la tua esistenza,
ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,
come tu speri e credi: anzi gettata
nelle fosse. Chi crede in Dio
si appresti ad essere l'ultimo
 dei salvati, ma sulla croce, ed a bere
tutta l'amarezza dell'abbandono.
Poiché Dio è quello che è.

IV 
L'anima è forse un concetto? Poiché se troppo
credi ed apprezzi di averla, e la godi per te,
tu la svuoti; ma se per pietà d'altrui,
o delle cose, mentre pensi di non averla
in te la rivendica la tua pietà d'esser
pari al bisogno, tu darai forma a quella
che, faticosamente, sarà l'anima di tutti:
uomini e sassi, ed animali e piante.

V
No, non temere mai nulla da Dio. E intanto
respira nel coro di quantunque respira
la certezza che non c'è differenza tra vita
e non vita, poiché nel cosmo non c'è altro
che vita, ed ogni apparenza di morte non è,
nell'esistere, che un confidare la carità
del vissuto a ciò che sempre vivrà.  
Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, 1996


lunedì 27 agosto 2012

Questa è una mela

"Un confratello mi raccontava un aneddoto riferito a S. Tommaso d'Aquino. Pare che all'inizio dei suoi corsi universitari, il santo mostrasse ai suoi allievi una mela, dicendo "questa è una mela. Chi non è d'accordo può andar via". L'orgoglio, la superbia intellettuale non è il pensare e l'argomentare ma il presumere di determinare, con il pensiero, l’essere. San Tommaso insegna giustamente che non è il pensiero a determinare l’essere, ma è l’essere che determina il pensiero. Tomas Tyn lucidamente chiosava: "solo Dio si può permettere il lusso di essere idealista, perché solo Dio determina l’essere, distinto da Lui, ovviamente, perché il suo essere non è determinabile, però tutti gli altri esseri distinti da Dio sono determinati dal pensiero di Dio. Quindi l’uomo che pensa di poter pensare le proprie idee, INDIPENDENTEMENTE DALL’ESSERE, è un uomo che si pone al posto di Dio. Qui c’è veramente una affinità con la demonologia, l’antropologia diventa demonologia."

Per impetrare la chiarezza della coscienza

Ho bisogno che Tu mi istruisca, giorno per giorno,
su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno. 

Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza,
la quale sola può comprendere la Tua ispirazione. 

I miei orecchi sono sordi; non so percepire la Tua voce.
I miei occhi sono offuscati; non so vedere i Tuoi segni. 

Tu solo puoi affinare il mio orecchio,
acuire il mio sguardo
e purificare e rinnovare il mio cuore. 

Insegnami a stare seduto ai Tuoi piedi
e a prestar ascolto alla Tua parola. 

Amen
 
 
Preghiera del beato John Henry Newman.
Romano Guardini, La coscienza, Morcelliana, 2001.
 
 

giovedì 23 agosto 2012

Accettare se stessi

Questa è la quarta cosa che la rivelazione ci dice sull'uomo: ciò che egli sarà una volta giunto alla realizzazione dell'immagine autentica, sarà chiaro solo alla fine, dopo la resurrezione e il Giudizio. Nel frattempo dura la lotta nel nascondimento, il divenire nella continua contraddizione...

  




mercoledì 22 agosto 2012

Beata Vergine Maria Regina


Lode alla Signora santa Regina.
Saluto alla Vergine di S. Francesco d'Assisi
"Ave, Signora santa Regina, santissima genitrice di Dio, Maria,
che sempre sei Vergine perpetua ed eccelsa,
fatta santa ed eletta dal santissimo Padre del cielo,
che Egli consacrò col santissimo, diletto Figlio suo
e con lo Spirito Santo Paraclito,
nella quale fu ed è ogni pienezza di grazia ed ogni bene.
Ave, o suo palazzo! ave, o suo tabernacolo!
ave, o sua casa! ave, o sua veste!
ave, o sua ancella! ave, o madre sua!
E voi tutte con essa, sante virtù,
che per la grazia e la luce dello Spirito Santo
siete infuse nei cuori degli uomini fedeli,
affinché d'infedeli li facciate fedeli a Dio"

"Saluto alla Vergine" canta il Piccolo Coro dell'Antoniano diretto da Mariele Ventre 1987


"Saluto alla Vergine" canta il Coro Giovani verso Assisi diretto da P. Gennaro Maria Becchimanzi 2010
"Conoscendo i difetti e dubitando dei pregi so di non essere adeguato al ruolo pubblico che mi è assegnato: la trasgressione del punk, la banalità accattivante del rock, la rassicurazione del neoconvertito. Invertire l’ordine considerando trasgressivo il neoconvertito e rassicurante il punk, ferma restante l’accattivante banalità del rock, nulla cambia". 
Ferretti Lindo Giovanni (dal suo ultimo articolo)

domenica 19 agosto 2012

Colui che mangia me vivrà per me

In quel tempo, Gesù disse alla folla: <<Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>. Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: <<Come può costui darci la sua carne da mangiare?>>. Gesù disse loro: <<In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno>>.
Vangelo di Giovanni, cap. 6 vv. 51-58

venerdì 17 agosto 2012

per molti o per tutti?

Questo è il mio sangue versato per voi e per tutti”: dice così l’attuale formula della consacrazione del vino in traduzione italiana. I nostri vescovi vorrebbero mantenerla ma il Papa chiede che si adotti una traduzione letterale del testo latino, che ha “pro vobis et pro multis”. Ne è nata una disputa che vede anche altre proposte, in sostituzione dell’attuale “tutti”, che è una traduzione interpretativa: “per la moltitudine”, “per moltitudini”, “per moltitudini immense”.
Il dibattito ha più di quarant’anni e risale alle traduzioni del Messale Romano nelle lingue moderne, all’indomani del Vaticano II. Quella italiana fu approvata da Paolo VI nel 1971. La questione è stata riproposta da Papa Benedetto con una lettera ai vescovi della Germania che ha la data del 14 aprile di quest’anno, con la quale si rifaceva a una lettera circolare inviata nel 2006 dalla Congregazione per il Culto alle Conferenze episcopali dei Paesi dov’era stata adottata la traduzione “per tutti” per invitarle a rimediare e a preparare i fedeli al cambiamento.
Per intendere la questione è necessaria una premessa filologica. Questa era la formula latina tradizionale: «Hic est enim Calix Sanguinis mei Novi et Aeterni Testamenti: qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum». Che in italiano è stata così tradotta: «Questo è il Calice del mio Sangue per la Nuova ed Eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Il «per tutti» dell’italiano corrisponde al tedesco «für allen», all’inglese «for all», allo spagnolo «por todos los hombres». Non in tutte le lingue c’era stata quella variazione interpretativa. In francese per esempio si dice «pour la multitude».
Papa Benedetto già nel luglio del 2005 (tre mesi dopo l’elezione) aveva fatto consultare sulla questione le Conferenze episcopali di tutto il mondo e aveva tirato la conclusione della necessità del cambiamento. Chi si era opposto alla decisione papale aveva espresso il timore che i fedeli non capissero il nuovo testo o lo interpretassero nel senso di una «restrizione» del numero dei salvati.
La lettera del Papa ai vescovi della Germania ovviamente vale – nella sostanza – per gli episcopati di tutto il mondo che sono alle prese con analoghe traduzioni “inclusive” e dunque anche per il nostro. Benedetto nella lettera rifà la storia della traduzione “per tutti”, si appella alla più recente traduzione “unificata tedesca” della Bibbia – cioè condivisa da cattolici e protestanti – che è tornata al “per molti” e conclude: «La traduzione di “pro multis” con “per tutti” non è stata una traduzione pura, bensì un’interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione». E’ dunque necessario che essa venga «sostituita dalla semplice traduzione ‘per molti’».
In obbedienza alle direttive papali già i vescovi statunitensi hanno adottato la traduzione “for many”. In tedesco sta per arrivare il “für viele” voluto dal Papa tedesco. I nostri vescovi – generalmente in prima fila nel seguire i desiderata papali – in questa occasione sono tra i renitenti e si mostrano affezionati al “per tutti”, se non altro al fine di risparmiarsi le obiezioni dei partecipanti alle celebrazioni, che direbbero: “Si cambia di nuovo?”
Nel novembre del 2010, in una votazione su questa richiesta del Papa, 171 nostri vescovi votarono “no”, 11 “sì”, mentre solo 4 furono quelli che proposero “per la moltitudine”. Ed è oggi verosimile che siano quei quattro ad averla vinta: la soluzione alla francese sta infatti guadagnando terreno tra i nostri studiosi. Sono già almeno tre le voci di biblisti e teologi che la propongono con argomentazioni convergenti.
Il primo dei due specialisti, Francesco Pieri, prete di Bologna e professore di liturgia e greco biblico, propone – nel volume appena uscito “Per una moltitudine”. Sulla traduzione delle parole eucaristiche (EDB) – “per la moltitudine”. Il secondo studioso, Silvio Barbaglia, prete di Novara e professore di esegesi, suggerisce “per moltitudini” con un intervento sulla rivista “Fides et Ratio” intitolato «Per tutti» oppure «per molti»?.
Il teologo è Severino Dianich, prete di Pisa, che firma l’introduzione al volume di Pieri invitando a prestare attenzione alla proposta dello studioso bolognese. Tra i favorevoli alla soluzione “francese” vanno poi segnalati la rivista “Il Regno” che per prima lo scorso maggio ha ospitato la tesi del Pieri e il sito “Cantuale Antonianum” – di liturgia e canto liturgico – che ora recensisce le proposte Pieri e Barbaglia e ne avanza una sua: “per le moltitudini”.
Per Pieri “una soluzione per avvicinarsi alla lettera della formula senza tradirne il senso è rappresentata dalla felicissima traduzione del messale francese, ‘pour la multitude’, che sarebbe senza difficoltà adottabile in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze: ‘per la moltitudine’ o se si preferisce ‘per una moltitudine’: una tale traduzione, più vicina alla lettera del messale romano di quella attualmente in uso, aiuterebbe a dischiudere a un maggior numero di fedeli il cuore stesso di quella preghiera eucaristica con la quale per oltre un millennio e mezzo l’Occidente ha celebrato la messa, professando la propria fede e alimentando la propria devozione”.
Credo – scrive il Barbaglia – che l’espressione letterale più corretta che renda il senso innovativo dato dalla redazione liturgica sia: ‘per voi e per moltitudini’. Ma l’espressione ‘pro multis’ potrebbe anche essere resa con due termini invece di uno: attraverso un sostantivo che esprima l’idea della moltitudine, accompagnato da un aggettivo che ne sottolinei la dimensione ‘in-definita’. L’aggettivo della lingua italiana – proveniente dalla lingua latina – che meglio esprime tutto ciò è ‘immenso’, che significa ‘senza misura’: esattamente la dimensione di ciò che non è delimitato o definito. L’esito dell’analisi qui condotta sarebbe dunque “per voi e per moltitudini immense”.
Luigi Accattoli - da "La Lettura" del Corriere della sera - 12 Agosto 2012

lunedì 13 agosto 2012

Rispettare i giovani


Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani. E mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza, alla wellness e la forma fisica, capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono tanti, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di eclissare o di allontanare dal suo orizzonte, che così si impoverisce e si intristisce. Una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra società è la prima che sta sommando queste due stoltezze. Che la nostra cultura non ami i giovani lo si vede da come li tratta nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nei partiti politici, dove i giovani sono sempre più assenti e tenuti distanti.

È questo il paradosso di un mondo adulto che vorrebbe restare giovane e di giovani che non riescono a diventare adulti, determinando così una patologia sociale che complica la vita degli adulti e dei giovani. Mia madre non hai vissuto il Sessantotto, sebbene avesse 25 anni, e perché nella campagna marchigiana non esisteva ancora la gioventù. Certo esisteva l’età biologica corrispondente, i giovani si innamoravano e sognavano; ma non c’era quella sorta di categoria o gruppo sociale che oggi chiamiamo "gioventù": questa l’hanno in un certo senso inventata il rock, il Beatles e il Sessantotto. Prima con il matrimonio o con il militare si passava direttamente da ragazzi ad adulti. Quella della gioventù è stata una delle più grandi invenzioni sociali della storia, che ha cambiato società, politica, economia. Oggi però è urgente re-inventare la vita adulta, perché finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità, compresa quella alta forma di responsabilità individuale e sociale che ci si assume sposandosi. E un lavoro che arriva tardi, e che – se e quando arriva – è troppo spesso insicuro, frammentario, precario e fragile, non fa altro che alimentare artificialmente e prolungare una giovinezza oltre i suoi orizzonti biologici. Tutto ciò fa perdere al mondo dell’economia e delle istituzioni l’energia vitale e morale fondamentale che proviene dai giovani, e rende per questi accidentato e troppo rischioso quel processo e passaggio fondamentale che dallo studio dovrebbe portare, presto, al lavoro vero.

Non è semplice uscire da questa trappola epocale e collettiva. Ma dobbiamo innanzitutto vederla, e poi rifletterci di più, adulti e giovani assieme, e a tutti i livelli. Certamente occorre ripensare, e profondamente, il significato del lavoro e del lavorare per un giovane oggi. Ci sono due tradizioni consolidate che oggi vanno cambiate. La prima è la radicata convinzione che un giovane quando sceglie di intraprendere un indirizzo di studio dovrebbe chiedersi di che cosa il mercato del lavoro ha bisogno, e quindi scegliere di conseguenza. Questa pratica di buon senso, che forse funzionava in un mondo più statico e tradizionale, sta progressivamente perdendo qualsiasi rilevanza effettiva, anche se facciamo fatica ad accorgercene, imprese e famiglie. La probabilità che esista una correlazione significativa tra la mia scelta di oggi e il mio lavoro tra 5-7 anni è sempre più bassa, per le semplici ragioni che in questo lasso di tempo cambia troppo velocemente il mondo economico, e cambio molto velocemente anch’io. Quando un amico mi chiede qual è la facoltà migliore per il proprio figlio, rispondo con sempre maggiore convinzione: «È quella che più ama e per la quale si sente portato; e se tuo figlio/a non lo sa ancora, dedicagli più tempo, ascoltalo, ascoltala, e soprattutto invitala ad ascoltarsi con più attenzione e più in profondità. E poi, qualsiasi scelta faccia, la sola cosa davvero importante è che studi bene e seriamente». Non si può scegliere di intraprendere una professione soltanto, o soprattutto, perché il mercato tra qualche anno avrà, forse, bisogno di qualcosa, e quando pensiamo e agiamo così finiamo senza volerlo per assomigliare ai servi se non agli schiavi. La ricerca genuina della propria vocazione nella vita e nel lavoro è la ricerca più importante dell’intera esistenza.

È qui però che va introdotto il secondo cambiamento culturale, che completa questo primo discorso, che riguarda il rapporto che dobbiamo imparare ad avere con gli studi e con i titoli. Un consiglio che dovrebbe essere dato, soprattutto in questa età di crisi, a un neo-laureato è il seguente: «Non far diventare il titolo appena conseguito un ostacolo. Considera quanto studiato soprattutto un investimento su di te, che ti sarà utilissimo per la tua libertà e felicità, ma non farlo diventare una pretesa per accettare solo i lavori che tu consideri adeguati. Se riesci a trovare subito il lavoro che senti come tuo e per cui hai studiato, bene; ma se non lo trovi subito accetta qualsiasi lavoro che sia utile alla società e a chi ti remunera; ma mentre lavori con serietà e impegno non smettere di coltivare le sue speranze profonde, i tuoi sogni, il tuo daimon». 


Il "mercato del lavoro" di domani sarà sempre meno legato ai titoli di studio e sempre più alla nostra capacità di rispondere e anticipare i bisogni e i gusti degli altri, dimostrando ai nostri interlocutori che, qui ed ora, abbiamo qualcosa di valido e utile da scambiare con loro, in rapporti di mutuo vantaggio, dignità e reciprocità.
Avremo presto giardinieri umanisti, artigiani con il dottorato, imprenditori filosofi, e gli anni di studio e i titoli saranno soprattutto investimenti in libertà, opportunità e cultura, e sempre meno associati al "pezzo di carta" e al posto di lavoro. Queste trasformazioni sono molto profonde e complesse, e non dobbiamo lasciare i giovanida soli ad attraversare questo guado. Altrimenti continueremo ad amare la giovinezza, ma a rendere molto difficile il futuro e il presente dei nostri giovani.
Luigino Bruni, da Avvenire, 12 agosto 2012

domenica 12 agosto 2012

Andrej Tarkovskij: L'Arte e lo Spirito

L'arte esprime tutto ciò che vi è di migliore nell'uomo: la Speranza, la Fede, la Carità, la Bellezza, la Preghiera... Ossia ciò che egli sogna, cil che egli spera... Quando un uomo che non sa nuotare viene gettato in acqua, non lui, ma il suo corpo comincia a compiere dei movimenti istintivi cercando di salvarsi. Anche l'arte è come un corpo umano gettato in acqua: essa è, per così dire, l'istinto dell'umanità di non affogare in senso spirituale. Nell'artista si manifesta l'istinto spirituale dell'umanità, e nella sua opera l'aspirazione dell'uomo verso l'eterno, il trascendente, il divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso.

Che cos'è l'arte? E'il Bene o il Male? Proviene da Dio o dal Diavolo? Dalla forza dell'uomo o dalla sua debolezza? Forse in essa è racchiuso un ideale di armonia sociale? Consiste in questo la sua funzione? Essa è una dichiarazione d'amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l'autentico significato della vita: l'Amore e il Sacrificio.

Andrej Tarkovskij, La forma dell'anima, Bur (I libri della speranza), 2012



sabato 11 agosto 2012

Chiara e le Sorelle: Lettera di Dio agli uomini

Diceva Chiara alle Sorelle: «La fede di tutti quelli che ricorrono alla nostra preghiera mi confonde ogni giorno di più. E, quando vengono a ringraziare perché sono stati meravigliosamente esauditi, vorrei sottrarmi».

Intervenne Agnese: «Anch’io, Chiara. Penso, infatti, all’esortazione di Francesco: “Non dobbiamo rubare la gloria di Dio, appropriandoci del bene che crediamo di fare, mentre in realtà è il Signore che lo compie, attraverso di noi, in parole o in opere! Perché in ogni cosa si rendesse lode a Dio, egli scrisse una lettera da consegnare ai governanti e ai capi delle nazioni”».

Continuò Chiara: «A noi diceva, facendo eco alle parole dell’Apostolo: “Voi, siete la Lettera di Dio che lo Spirito consegna agli uomini del nostro tempo per indicare loro la Via della Vita"».



Dopo un attimo di silenzio, riprese: «Credere che la tenerezza di Dio si china su tutte le miserie che ci vengono affidate per curarle, guarirle persino, attraverso le nostre mani; e, come Gesù presso la tomba di Lazzaro, cominciare col benedire il Padre: “Sì, Padre, sapevo che mi esaudisci sempre!”; credere possibile l’impossibile e in ogni circostanza dar lode a Dio è la missione che Egli stesso ci ha affidato. La nostra lode a Lui è umile confessione del Suo Amore, più forte di tutto, che mai abbandona».

 Santa Chiara, Fioretti di una vita, L.I.E.F., 2005.

martedì 7 agosto 2012

Passione & Madre


IV 

Gesù incontra la Madre


Non so cosa pensare…
Era meglio per lei 
       restare
lontana da qui, 
 e non vedere
cosa fanno patire a suo figlio.
O no, è giusto così, 
che nello sguardo di lei 
lui tiri un respiro, sia un giglio
sulle piaghe…

Io non so cosa pensare…
Come fa il cuore di lei a sopportare,
a vedere ora apertamente
quel che in segreto
custodiva, 
la spada, il lupo che la feriva. 
Teatro così violento.

Io non so come può fare
una madre a essere madre fino in fondo,
di fronte alla morte del figlio
a questa fine del mondo…
Ma lei ha fatto bene a venire
così lui per un attimo 
può riposare lo sguardo, riposare
il cuore. 
Perché lui sente la croce e lei sente la spada. 
Perché lui muore e lei sente di morire.

Perché in lui c’è la certezza della Resurrezione
ma ora che sta così male
se lo vuole sentir dire da sua Madre.

Perché sono insieme 
come ogni madre e ogni 
figlio. E come nessuna
madre e nessun figlio.

Io non so cosa pensare…
Cosa si sono potuti mormorare,
in quella impossibile consolazione,
in quella definitiva, segreta
consolazione
Davide Rondoni, da "Via Crucis dell'amico", Marietti, 2007

lunedì 6 agosto 2012

UNA LETTERA DALL'ALDILA'


Ragazzi! Condivido con voi questa lettura... 
Premetto che è uno scritto di una certa intensità ma la mia intenzione non è quella di postarlo per terrorismo... Piuttosto l'intento è quello di una sincera e rinnovata umiltà dinanzi alla grandezza delle realtà in cui crediamo... Realtà che spesso sminuiamo a causa della nostra tiepidezza...

Lettera n.31 N. 31 Una lettera dall’aldilà 
                                                                                                                                                                                
                                                                                                                                                                               Nancy, 27 giugno 1994 

Miei cari Amici, 
un professore di teologia di un’università romana mi ha sugge-rito di farvi conoscere un documento piuttosto singolare. 
È un testo che ha ricevuto l’imprimatur del vicario generale di Roma ed è stato dichiarato conforme alla “sana teologia e al Vangelo.” La Gerarchia non può farsi garante della sua origine, e nemmeno io posso farlo. Tuttavia, il professore di teologia so-stiene che in ogni caso non può essere stato scritto che sotto una illuminazione profetica e con l’assistenza dello Spirito Santo.50 
50 In seguito, questo testo che era stato pubblicato anche nella diocesi di Bayeux con l’imprimatur del Vicario generale nel 1964, accompagnato da una prefazione di Mons. L. Cristiani, è stato ripreso da padre Jean-Marc Bot nel suo libro Osons reparler de l’enfer, pubblicato nel 2002 per le Éditions de l’Emmanuel, con l’imprimatur del Vica-rio generale della diocesi di Versailles (ndt). 
Sotto questo punto di vista si può affermare che questo do-cumento viene dall’aldilà. Quale aldilà? Ognuno giudichi libera-mente: è una questione importante, ma non la più importante. La 
questione più importante riguarda l’assistenza dello Spirito Santo che, come ho già detto, qui sembra certa. 
Vi trasmetto il testo così com’è, senza commento. Sono responsabile della traduzione: ho modificato leggermente lo stile, in nessun modo la dottrina. Io per primo mi sono sorpreso della coincidenza fra questa dottrina e la teologia tomista, le intuizioni di Teresa di Gesù Bambino... e le mie. 
In una lettera successiva risponderò alle vostre domande su questo documento, se avranno il dono di ispirarmi una risposta giusta. 
Giunga a tutti la mia fraterna benedizione, 
Fr. M.D. Molinié, o.p. 

UNA LETTERA DALL’ALTRO MONDO 
IMPRIMATUR 
E Vicariatu Urbi, die 9-IV-1952 
Aloisius Traglia 
Archiep. us Caesarien. Vicesgerens 
Ex parte Ordinis nihil obstat quominus imprimatur. 
Romae, 2 nov. 1952 
Fr. Benignus a S. Ilario M. 
Min. Gen. O. F. M. Cap. 
Fra le carte di una giovane, morta in un convento, è stato trovato il seguente manoscritto. Esaminato e munito dell’imprimatur, lo si dichiara conforme alla sa-na Teologia e al Vangelo. 

Avevo un’amica. Ci frequentavamo a ***, dove lavoravamo una di fianco all’altra nella stessa ditta. 
Poi Annette si sposò e non la vidi più. 
Nell’autunno del 1937 ero in vacanza sul lago di Garda. Mia madre mi scrisse verso la fine della seconda settimana di settem-bre: “Pensa! Annette N. è morta! È stato un incidente automobi-listico. L’hanno sepolta ieri nel Waldfriedhof [cimitero del bosco]. 
Questa notizia mi spaventò. Sapevo che Annette non era mai stata molto cristiana. Era pronta a comparire davanti a Dio che la chiamava così all’improvviso? 
Il mattino dopo, nella cappella delle suore che mi ospitavano, assistei alla Messa per lei, pregai con fervore per la pace della sua anima e mi comunicai con quella intenzione. 
Per tutto il giorno provai un certo malessere che aumentò nel corso della serata. 
Dormii un sonno agitato finché non fui svegliata come da un violento bussare alla porta. Accesi la luce. L’orologio sul como-dino segnava mezzanotte e dieci. Non vidi nessuno. Nella casa non si sentiva alcun rumore. Solo le onde del lago si frangevano monotone contro il muro di riva del giardino. Non c’era un alito di vento. 
Ero incerta se alzarmi o no, ma poi mi dissi decisa: “Sono solo fantasie, la mia immaginazione è turbata da quella morte.” Mi voltai dall’altra parte, recitai qualche Pater per le anime del Purga-torio e mi riaddormentai. E feci un sogno.
In questo sogno mi alzavo verso le sei del mattino per scende-re in cappella. 
Nell’aprire la porta della mia camera inciampai su un fascio di fogli sparsi. Li raccolsi e riconobbi la scrittura di Annette. Mi sfuggì un grido. Tutta tremante, tenevo i fogli in mano. Mi senti-vo incapace di dire un “Pater,” ero presa alla gola e mi sentivo soffocare. Corsi fuori, sistemandomi i capelli come potevo, misi la lettera nella borsetta e lasciai la casa. Presi il sentiero che par-tendo dalla strada principale (la famosa “Gardesana”), si inerpica tra gli ulivi, i parchi delle ville e i cespugli di alloro. 
Il mattino sorgeva luminoso. Di solito, ogni cento passi, mi fermavo estatica davanti alla magnifica vista del lago e dell’isola di Garda, bella come una favola. L’azzurro profondo dell’acqua mi rianimava. Contemplavo piena di meraviglia il grigio monte Baldo che, dall’altra parte del lago, si eleva lentamente da 64 me-tri fino oltre i 2.200 sul livello del mare. 
Quella volta, invece, non concessi nemmeno uno sguardo a tutto questo. Dopo un quarto d’ora di cammino, mi lasciai cadere meccanicamente su una panca posta tra due cipressi, proprio là dove il giorno prima avevo letto con tanto piacere la Jungfer There-se di Federer. 
Presi la lettera. 
Riporto qui questo scritto dall’altro mondo, parola per parola, così come l’ho letto. 
“Clara, non pregare per me! Sono dannata. Se te lo faccio sa-pere e te ne parlo a lungo, non credere che sia per amicizia. Qui non amiamo nessuno. Lo faccio contro la mia volontà, in quanto “parte di quella potenza che vuole sempre il Male e opera il Be-ne.”  
In realtà vorrei vedere anche te finire in questo stato, dove io ho ormai gettato l’ancora per sempre. 
Non dispiacerti di questo desiderio. Qui la pensiamo tutti allo stesso modo. La nostra volontà è pietrificata nel male – precisa-mente quello che voi chiamate “il male.” Anche quando facciamo qualcosa di “buono,” come faccio io adesso aprendoti gli oc-chi sull’inferno, l’intenzione non è mai buona. 
Ti ricordi ancora che ci siamo conosciute quattro anni fa a ***? Tu avevi 23 anni ed eri già lì da sei mesi quando arrivai. Mi hai tolto da qualche impiccio; ero una principiante e tu mi desti dei “buoni” consigli. Ma cosa vuol dire “buono”? 
Allora io ammiravo il tuo “amore per il prossimo.” Ridicolo! Il tuo aiuto era pura vanità, cosa che d’altra parte già sospettavo. Qui non riconosciamo niente di buono. In nessuno. 
Il tempo della mia giovinezza lo conosci. Colmo qui alcune la-cune. Non sono stata “desiderata,” e non avrei neanche dovuto esistere: sono stata “un incidente.” Le mie due sorelle avevano 14 e 15 anni quando vidi la luce. 
Se almeno non fossi mai esistita! Se potessi ora annientarmi, sfuggire a questi tormenti! Nessuna voluttà potrebbe eguagliare quella con cui lascerei la mia esistenza, come un vestito di cenere che si perde nel nulla. 
Ma io devo esistere. Devo esistere come mi sono fatta io stes-sa: con un’esistenza sciupata. 
Quando papà e mamma, ancora giovani, si trasferirono dalla campagna in città, ormai non frequentavano più la Chiesa. Tanto meglio. Frequentavano solo persone estranee alla Chiesa. Si era-no conosciuti a una serata danzante e sei mesi dopo “dovettero” sposarsi. 
Nella cerimonia nuziale ricevettero tanta acqua benedetta che la mamma si mise ad andare a Messa due volte all’anno. Ma non mi ha mai insegnato a pregare veramente: anche se non versava-mo in cattive condizioni economiche, viveva immersa nelle pre-occupazioni della vita quotidiana. 
Le parole pregare, messa, acqua benedetta, chiesa, le scrivo con una ripugnanza interiore senza pari. Ho orrore di tutto que-sto, come ho orrore di tutti quelli che vanno in chiesa e in gene-rale di tutti gli uomini e di tutti gli esseri. Tutto ci tormenta. Ogni conoscenza ricevuta in punto di morte, ogni ricordo di cose vis-sute o conosciute è per noi un fuoco divorante. 
E tutti i nostri ricordi manifestano la grazia che abbiamo di-sprezzato. Che tormento! Noi non mangiamo, non dormiamo, non camminiamo materialmente. Spiritualmente incatenati, guar-diamo inebetiti “con pianto e stridore di denti” la vita che abbiamo sprecato: pieni di odio e nel tormento! 
Capisci? Qui beviamo l’odio come acqua. Anche tra di noi. 
Ma più di ogni altra cosa noi odiamo Dio. 
Su questo ti devo dei chiarimenti. 
I beati in Cielo non possono che amarlo, perché lo vedono senza velo, nella sua abbagliante bellezza. Questo li beatifica in un modo che è impossibile descrivere. Noi lo sappiamo bene e questo ci rende folli. 
Sulla terra chi conosce Dio alla luce della natura e della Rive-lazione può mettersi ad amarlo, ma non è costretto. Il credente (lo scrivo digrignando i denti) che medita e contempla Gesù Cri-sto in Croce, con le braccia distese sulla Croce, finirà per amarlo. 
Ma colui che un giorno Lo rigettò (e il nostro caso è questo), non può che odiare Dio quando Egli si presenta soltanto nell’uragano, come giusto vendicatore. E lo odia con tutta la vio-
lenza della sua volontà malvagia. Eternamente. In virtù della sua libera decisione di essere separato da Dio: decisione nella quale, morendo, abbiamo reso l’anima e che neppure ora rinneghiamo; né avremo mai intenzione di rinnegare. 
Capisci ora perché l’inferno è eterno? Perché la nostra ostina-zione è irrevocabile. 
Mio malgrado devo aggiungere che Dio è misericordioso an-che con noi. Dico “mio malgrado” perché, anche se scrivo vo-lontariamente questa lettera, non mi è però permesso di mentire, come invece vorrei. Scrivo molte cose contro la mia volontà. Devo soffocare anche il furore delle ingiurie che vorrei vomitare. 
Dio è stato misericordioso non permettendo che nella nostra vita terrena giungessimo fino al fondo della nostra volontà mal-vagia, come saremmo stati disposti a fare. Questo avrebbe au-mentato le nostre colpe e le nostre pene, ma Lui ci fa morire prima del tempo, come è capitato a me, o fa intervenire altre cir-costanze che mitigano la pena. 
Ora si mostra misericordioso non obbligandoci ad accostarci a Lui più di quanto già non lo siamo in questo luogo infernale e lontano. Questo attenua i nostri tormenti: ogni passo che mi av-vicinasse di più a Dio causerebbe in me una sofferenza più gran-de che se mi avvicinassi a un braciere. 
Tu ti spaventasti un giorno quando, durante una passeggiata, ti riferii le parole di mio padre nell’imminenza della mia prima Co-munione: “Mia piccola Annette, cerca di farti regalare un bel ve-stito, tutto il resto è un bluff e un’impostura.” Di fronte alla tua reazione impaurita mi sono quasi vergognata. Ora ne rido. 
L’unica cosa ragionevole in quell’impostura era di non ammet-tere i bambini alla comunione prima dei dodici anni. Io allora a-vevo già preso gusto al veleno dei divertimenti mondani, mettevo 
da parte senza troppi scrupoli le cose religiose e non davo molta importanza alla prima Comunione. 
Che tanti bambini facciano oggi la prima comunione a sette anni ci riempie di furore. Facciamo di tutto per far credere alla gente che i bambini non abbiano ancora una conoscenza suffi-ciente. Il nostro scopo è che commettano prima qualche peccato mortale. Allora quella bianca particola non produce più in loro così gran danno come quando i loro cuori vivono ancora nella fede, nella speranza e nella carità (puah! Queste cose!) ricevute nel battesimo. Ti ricordi che avevo già sostenuto sulla terra la stessa tesi? 
Ho menzionato mio padre. Litigava spesso con mia mamma. Te nei parlai molto raramente perché mi vergognavo. Che cosa ridicola vergognarsi del male! Qui per noi è tutto uguale. 
I miei genitori dormivano in camere separate; io dormivo con la mamma, mio padre nella camera accanto, dove poteva rientra-re liberamente all’ora che voleva. Beveva molto e scialacquava il patrimonio. Le mie sorelle lavoravano come impiegate ma dice-vano di aver bisogno dei soldi che guadagnavano, e così anche mia madre dovette mettersi a lavorare per guadagnarsi da vivere. 
Nel suo ultimo anno di vita mio padre picchiava spesso mia mamma, quando si rifiutava di dargli denaro. Con me, invece, fu sempre affettuoso. Un giorno (te lo raccontai e tu fosti urtata dal mio capriccio... da cosa non sei stata urtata a mio riguardo?), do-vette riportare al negozio, due volte di seguito, delle scarpe che avevano una forma e dei tacchi poco moderni per i miei gusti. La notte in cui mio padre ebbe un colpo apoplettico successe qual-cosa che non sono mai riuscita a confidarti per paura della tua reazione. Ora la devi sapere. 
È importante, perché per la prima volta fui assalita dallo spiri-to che attualmente mi tormenta.
Ero nella camera di mia madre, che dormiva profondamente. Tutto a un tratto mi sentii chiamare per nome. Una voce scono-sciuta mi disse: “Cosa succederà se tuo padre muore?” 
Io non gli volevo più bene da quando maltrattava mia madre; del resto non amavo già più nessuno, ero solo attaccata a certe persone che si mostravano benevole nei miei confronti. L’amore gratuito, che non si aspetta ricompense sulla terra, non c’è che nelle anime in stato di grazia. E io non ero in stato di grazia. 
Senza chiedermi da dove potesse venire risposi a quella do-manda imprevista: “Non morirà!” Dopo qualche istante di silen-zio di nuovo intesi chiaramente la stessa domanda. “Ma non mo-rirà!” mi uscì ancora di bocca bruscamente. 
Per la terza volta mi fu chiesto: “Cosa succederà se tuo padre muore?” Rividi mio padre che spesso rientrava ubriaco: faceva un gran baccano, maltrattava mia madre e ci faceva fare brutta figura davanti agli altri. Di colpo gridai furiosa: “Ben gli sta!” 
Allora tutto tacque. 
Il mattino dopo mia madre voleva andare in camera sua a far le pulizie, ma trovò la porta chiusa a chiave. Verso mezzogiorno la sfondarono. Mio padre, mezzo nudo, giaceva morto sul letto. Doveva avere avuto un malore mentre andava a prendere della birra in cantina. Era malato da tempo. 
(Così Dio avrebbe legato alla preghiera della figlia, verso cui quest’uomo in un certo senso era stato buono, un’ultima occa-sione di convertirsi?) 
Tu e Marthe K. mi avete spinto a entrare nell’Associazione delle Giovani. I giochi erano divertenti. Come sai ebbi subito un ruolo di animatrice: ero dotata per questo. Anche le gite mi piacevano. Qualche volta mi lasciai anche trascinare a confessarmi e a co-
municarmi. A dire il vero non trovavo niente da confessare. I miei pensieri e le mie parole non avevano per me nessuna impor-tanza. Quanto ai peccati più gravi, non ero ancora abbastanza corrotta per commetterli. 
Un giorno mi desti un avvertimento: “Annette, se non preghi di più, ti perderai!” In effetti non pregavo molto, e solamente con ripugnanza. Oggi so che purtroppo avevi ragione. Tutti quel-li che ardono all’inferno non hanno mai pregato, o non abba-stanza. La preghiera è il primo passo verso Dio, quello decisivo. Specialmente la preghiera alla Madre di Cristo, il cui nome qui non viene mai pronunciato. La devozione verso di Lei strappa al demonio innumerevoli anime, che il peccato gli avrebbe imman-cabilmente consegnato. 
Continuo questo racconto schiumando di collera, e sotto co-strizione. Pregare è la cosa più facile che l’uomo possa fare. Ed è proprio a questa cosa molto facile che Dio ha legato la salvezza di ognuno. A chi prega con perseveranza dà poco a poco tanta Luce, lo fortifica in modo tale che alla fine anche il peccatore più impantanato può rialzarsi definitivamente, anche se è immerso nel fango fino al collo. 
Negli ultimi anni della mia vita non ho pregato come avrei dovuto, e mi sono così privata delle grazie senza le quali nessuno si può salvare. 
Qui non riceviamo più nessuna grazia. E anche se Dio ce l’offrisse, la rifiuteremmo con cinismo. Tutte le fluttuazioni dell’esistenza terrena qui hanno termine. Da voi sulla terra si può passare dallo stato di peccato allo stato di grazia e poi ricadere nel peccato. Spesso per debolezza, talora per malizia. 
Con la morte tutte queste vicissitudini finiscono, perché esse sono radicate nell’imperfezione della libertà umana. Ormai ab-biamo raggiunto il termine. 
Con il passare degli anni i cambiamenti si fanno sempre più rari. È vero che fino alla morte ci si può sempre orientare verso Dio, o voltargli le spalle. Ma nell’ora del trapasso, come trascinati dalla corrente – e con la poca volontà che resta – si segue la piega presa durante la vita. L’atteggiamento buono o cattivo diventa una seconda natura che ci porta con sé. 
È quello che capitò anche a me. Da anni vivevo lontano da Dio. Per questo motivo, all’ultimo richiamo della Grazia, io mi schierai contro di Lui. 
Non sono stati dei peccati abituali ad essermi fatali, ma l’aver respinto la grazia della conversione. Tu mi hai più volte esortato ad ascoltare delle prediche e a leggere libri di pietà. “Non ho tempo” era immancabilmente la mia risposta. Non serviva altro per alimentare i miei dubbi profondi ! 
Del resto devo constatare che poco prima della mia uscita dall’Associazione delle Giovani, le cose erano arrivate ad un punto per cui mi sarebbe stato estremamente difficile cambiare strada. Mi sentivo insicura e infelice ma si levava un muro tra me e la conversione. 
Non sembra che tu te ne sia accorta. Trovavi tutto questo così semplice il giorno in cui mi hai detto: “Ma insomma fa’ una buo-na confessione e tutto si sistemerà!” Sentivo che era vero, che una buona confessione mi avrebbe liberato, ma il mondo, il de-monio e la carne mi tenevano già troppo saldamente nelle loro grinfie. 
All’influsso del demonio non ci ho mai creduto. Oggi posso testimoniare la sua potente influenza sulle persone che si trovano nella condizione in cui ero io. Solo molte preghiere, mie e degli altri, con molti sacrifici e sofferenze, avrebbero potuto strappar-mi da lui. E solo a poco a poco.
Se sono pochi i posseduti visibili, quelli invisibili sono una legione. Il diavolo non può togliere la libertà a coloro che si met-tono sotto il suo influsso, ma come castigo della loro apostasia quasi sistematica, Dio permette che il “Maligno” penetri in loro. 
Odio anche il demonio. Tuttavia mi piace, perché cerca di far-vi cadere: lui e i suoi subalterni, gli spiriti caduti con lui fin dalle origini. Si contano a milioni. Vagano per tutta la terra densi come moscerini, e voi non ve ne rendete neanche conto. 
Non sta a noi reprobi tentarvi, spetta agli spiriti decaduti e quando riescono a trascinare un’anima all’inferno il loro tormen-to si accresce: cosa non fa fare l’odio! 
Anche se camminavo per vie lontane da Dio, Lui mi insegui-va. Da parte mia preparavo la strada alla grazia con atti di carità naturale, che facevo abbastanza spesso per inclinazione del mio carattere. Talora Dio mi attirava in una chiesa. Allora sentivo come una nostalgia. Quando curavo mia madre, malgrado la fati-ca di una giornata di lavoro, e in un certo senso mi sacrificavo veramente, questi richiami di Dio agivano potentemente. 
Una volta, nella chiesa dell’ospedale dove mi avevi portato du-rante la pausa di mezzogiorno, mi capitò qualcosa che mi portò a un millimetro dalla conversione: piansi! 
Ma i piaceri e le preoccupazioni mondane passarono come un torrente sulla grazia: il seme buono fu soffocato dai rovi e dalle spine. Dichiarando che la religione è una questione di sentimen-to, come dicevano tutti al lavoro, cestinai anche quel supremo appello della grazia. 
Una volta mi sgridasti perché invece di fare una vera genufles-sione abbozzai un inchino molto disinvolto, piegando appena il ginocchio. Ci vedesti della pigrizia e della negligenza. Non sem-bravi sospettare minimamente che ormai non credevo più nella 
presenza reale. Ora ci credo, ma con una fede puramente natura-le, come si crede in un temporale quando se ne vedono gli effetti. 
Nel frattempo mi ero fatta una religione secondo i miei gusti. Come tutti i miei colleghi credevo nella reincarnazione, l’anima rinasce in un altro individuo dopo la morte, indefinitamente. La questione dell’aldilà riceveva una risposta inoffensiva e cessava di essere angosciosa. 
Perché non mi hai mai ricordato la parabola del ricco cattivo e del povero mendicante Lazzaro, dove il narratore, Gesù, manda immediatamente, dopo la morte, uno all’inferno e l’altro in para-diso?... Del resto cosa avresti ottenuto? Niente di più che con i tuoi altri discorsi da bigotta! 
A poco a poco mi fabbricai un idolo sufficientemente elevato per chiamarsi Dio e abbastanza lontano perché non dovessi in-trattenere relazioni con Lui; abbastanza vago perché al bisogno, senza cessare di dichiararmi cattolica, divenisse simile al Dio del panteismo o a un Dio inaccessibile e senza rapporti con il mon-do. 
Questo Dio non aveva né un paradiso da offrirmi né un infer-no da infliggermi. Lo lasciavo in pace e Lui lasciava in pace me: questo era il culto che gli rendevo. Dicevo: “Ciascuno crede in ciò che più gli piace.” Nel corso degli anni divenni piuttosto sicu-ra della mia “religione.” In questo modo era vivibile. 
Una sola cosa avrebbe potuto convertirmi: una sofferenza lunga e profonda, ma questa sofferenza non venne. Capisci cosa vuol dire: “Dio castiga chi ama?” 
Una domenica di luglio, l’Associazione delle Giovani organizzò una gita a ***. La gita mi sarebbe anche piaciuta, ma tutti quei di-scorsi insulsi, quegli atteggiamenti da bigotte! Inoltre un’altra “i-cona,” molto diversa da quella della Vergine di ***, si innalzava 
da qualche tempo sull’altare del mio cuore: il seducente Max N. del negozio accanto. 
Qualche giorno prima avevamo scherzato assieme e proprio quella domenica mi aveva invitato a fare una passeggiata con lui. La sua fidanzata di turno era ricoverata all’ospedale. Aveva capito che gli avevo messo gli occhi addosso. Quanto a sposarlo, non ci pensavo ancora. Era di condizione agiata, ma faceva troppo il ga-lante con tutte le ragazze. Fin d’allora volevo un uomo che ap-partenesse solo a me. Non solo sposa, ma la sola sposa. Ho sem-pre avuto, infatti, un certo codice naturale di condotta. 
(È vero! Annette, con tutta la sua indifferenza religiosa, aveva qualcosa di nobile nel suo comportamento. Mi spavento al pen-siero che anche delle persone “ben educate” possano andare all’inferno – dal momento che sono tanto “male educate” da sfuggire a Dio.) 
Durante quella gita Max si prodigò in gentilezze. Beh, non fa-cevamo certo discorsi da preti, come voi. Il giorno dopo in uffi-cio mi rimproverasti di non essere venuta con voi a ***. Ti rac-contai della nostra gita. La tua prima domanda fu: “Sei andata a Messa?” Che stupida! Come avrei potuto se eravamo partiti alle sei ?” 
Ti ricorderai ancora che aggiunsi, esasperata: “Il buon Dio non è meschino come i vostri preti!” Oggi devo riconoscere che, benché infinitamente “buono,” Dio pesa le cose con molta più precisione di tutti i sacerdoti messi insieme. 
Dopo quella prima uscita con Max, venni ancora una sola vol-ta all’Associazione, a Natale. Qualcosa mi spingeva a tornare. Ma interiormente ero già lontana. Cinema, ballo e gite si avvicenda-vano senza tregua. Max ed io qualche volta litigavamo ma seppi sempre recuperarlo e legarlo a me.
La mia rivale fu molto sgradevole: uscita dall’ospedale, si comportò come una furia. Questo costituì una buona occasione per me. La mia nobile serenità fece molta impressione su Max, che finì per preferirmi. Avevo saputo rendere la mia rivale odiosa mantenendomi perfettamente calma: esteriormente oggettiva, in-teriormente piena di veleno. Sentimenti e comportamenti di que-sto tipo preparano in modo eccellente all’inferno. Sono diabolici nel senso stretto del termine. 
Perché ti racconto queste cose ? Per spiegarti come mi staccai definitivamente da Dio. Max ed io non spingemmo mai la nostra intimità fino ai limiti estremi: capivo bene che mi sarei abbassata ai suoi occhi se mi fossi data a lui prima del tempo, perciò seppi trattenermi. Ma è chiaro che ogni volta che lo ritenevo utile, ero sempre pronta a tutto. Bisognava che conquistassi Max. Per que-sto niente sarebbe stato troppo caro. 
Inoltre, un po’ alla volta, eravamo arrivati ad amarci veramen-te, poiché entrambi avevamo qualità preziose che alimentavano una stima reciproca. Io ero abile, capace e sapevo essere gradevo-le. Così tenevo Max saldamente in mano e riuscii, almeno negli ultimi mesi prima del matrimonio, a tenermelo solo per me. 
La mia apostasia è consistita nell’elevare una creatura al rango di idolo. Quando l’amore per una persona dell’altro sesso rimane impantanato nella dimensione temporale si realizza perfettamen-te come in nessun altro caso, questa idolatria. In essa risiede il fa-scino, lo stimolo e il veleno di questo amore. L’ “adorazione” che consacravo a me stessa nella persona di Max divenne per me religione vissuta. 
In quel periodo, al lavoro, mi scatenavo riversando il mio ve-leno contro chi andava in chiesa, i sacerdoti, le indulgenze, il Ro-sario e altre stupidaggini. Tu hai tentato, più o meno abilmente di difendere queste cose. Apparentemente non sospettavi che non era questo il nocciolo del problema. Cercavo piuttosto un alibi
per la mia coscienza: ne avevo ancora bisogno per giustificare la mia apostasia. 
In fondo ero in piena rivolta contro Dio. Tu non lo capivi, mi credevi ancora cattolica. Del resto io stessa rivendicavo questo titolo e versavo le offerte per il culto. Una certa “controassicura-zione,” pensavo, non può nuocere. 
Talvolta, forse, le tue risposte hanno colpito il segno. Ma non avevano presa su di me perché non dovevano averla. A causa di queste relazioni falsate tra noi due, fu lieve il dolore del distacco quando ci separammo, in occasione del mio matrimonio. 
Prima della cerimonia, mi confessai e mi comunicai ancora una volta. Era obbligatorio. Mio marito ed io, su questo punto la pensavamo allo stesso modo: perché non adempiere a questa formalità come gli altri? 
Voi definite sacrilega una tale comunione. Ebbene, dopo que-sta comunione “indegna,” la mia coscienza fu lasciata tranquilla. Del resto fu l’ultima. 
La nostra vita coniugale si svolgeva generalmente in perfetta armonia. Eravamo dello stesso parere su tutto. Anche sul rifiuto del peso di un figlio. Mio marito ne avrebbe anche voluto avere uno, non di più: seppi dissuaderlo. 
Vestiti, mobili di lusso, ricevimenti, gite, viaggi in auto e di-strazioni di questo genere contavano più di ogni altra cosa. L’anno fra il matrimonio e la mia morte improvvisa fu un anno di piaceri terreni. 
Tutte le domeniche uscivamo in auto o facevamo visita ai miei suoceri (di mia madre mi vergognavo), che come noi vivevano superficialmente. Dentro di me non ero certo felice anche se e-steriormente mi mostravo allegra. C’era sempre qualcosa d’indefinibile che mi rodeva. Avrei voluto che tutto finisse con la morte (il più tardi possibile beninteso). 
Ma è vero, come avevo sentito in una predica quando ero pic-cola, che Dio ricompensa ogni opera buona che abbiamo com-piuto. Quando non può ricompensarla nell’altra vita, lo fa in que-sta: ereditai all’improvviso da mia zia Lotte. Per altro, mio marito riusciva nel lavoro ed aveva un ottimo stipendio. Così potei arre-dare con eleganza la mia nuova casa. 
La religione non mandava più che da lontano una luce pallida, debole e incerta. I caffè e gli hotel in cui andavamo durante i no-stri viaggi non portavano certamente a Dio. Tutti quelli che fre-quentavano questi luoghi vivevano come noi, dall’esterno verso l’interno e non dall’interno verso l’esterno. 
Se in vacanza visitavamo delle cattedrali, cercavamo di godere della loro bellezza artistica. Sapevo neutralizzare la suggestione religiosa che ci ispiravano ancora, specialmente le cattedrali ro-maniche e gotiche, criticando dettagli secondari: un frate conver-so impacciato o sporco, lo “scandalo” dei frati che volevano pas-sare per devoti e vendevano liquori, l’eterno scampanio durante le funzioni, sempre per far soldi... 
In questo modo seppi sempre scacciare la Grazia quando bus-sava alla mia porta. Davo libero sfogo al mio malumore, in parti-colare davanti alle rappresentazioni medievali dell’inferno, in cui il demonio arrostisce le anime sulle braci rosse e incandescenti, mentre i suoi compagni dalla lunga coda gli portano nuove vitti-me. 
Clara! Ci si può ingannare raffigurando l’inferno, ma non si esagera mai! Il fuoco dell’inferno è sempre stato il mio bersaglio privilegiato. Ti ricordi che una volta, mentre ne discutevamo, ti misi un fiammifero acceso sotto il naso dicendo con sarcasmo: “Ha lo stesso odore?” Tu spegnesti subito la fiamma. 
Qui nessuno può spegnerla. 
Io ti dico: il fuoco di cui parla la Bibbia non è il “tormento della coscienza.” Il fuoco è fuoco! Bisogna prendere alla lettera ciò che Lui ha detto: “Via da me, maledetti, nel fuoco eterno!” Alla lettera! 
Mi potresti chiedere come è possibile che lo spirito sia colpito da un fuoco materiale. In che modo la tua anima può soffrire quando ti bruci un dito? L’anima non brucia, tuttavia quale dolo-re! In modo analogo, qui siamo spiritualmente legati al fuoco, se-condo la nostra natura e le nostre facoltà. La nostra anima è pri-vata delle sue ali; non possiamo pensare né quello che vogliamo né come lo vogliamo. 
Non leggere stupidamente queste righe: questo stato che a voi non dice niente, brucia senza consumare. Ma il nostro più grande tormento consiste nel sapere con certezza che non vedremo mai Dio. 
Come può essere così grande il tormento, quando sulla terra ci lasciava del tutto indifferenti? Finché il coltello se ne sta sulla ta-vola ci lascia indifferenti: si vede bene che è affilato, ma non lo si sente. Conficca questo coltello nella carne e ti metterai ad urlare. 
Adesso noi sentiamo la perdita di Dio; prima la pensavamo soltanto. 
Non tutte le anime soffrono allo stesso modo. Più si è peccato con cattiveria sistematica, più gravemente pesa la perdita di Dio e si è oppressi dalla creatura di cui si è abusato. I cattolici soffrono più degli altri, perché hanno ricevuto e calpestato più grazie e più luci. 
Chi ha saputo di più soffre in misura maggiore di chi sapeva meno. Chi peccò per malizia soffre in maniera più acuta di chi è caduto per debolezza. 
Ma nessuno soffre più di quanto non abbia meritato. Ah! Se solo potesse non essere vero: avrei un motivo per odiare! 
Tu mi dicesti un giorno che nessuno va all’inferno senza sa-perlo e che questo era stato rivelato a una santa. In un primo momento ne risi, poi mi rifugiai nel pensiero segreto che avrei avuto tutto il tempo per rimediare. 
Era vero. Nell’ora della morte non ho conosciuto l’inferno co-sì com’è: non è concesso a nessun mortale. Ma ne ebbi piena co-scienza: “Se tu muori vai all’altro mondo dritta come una freccia contro Dio. Ne sopporterai le conseguenze.” Ma non feci dietro-front, trascinata, come ho già detto, dalla forza dell’abitudine. Condizionati dal loro passato gli uomini invecchiano sprofon-dando sempre più nella stesse abitudini. 
Ecco ora il racconto della mia morte. 
Una settimana fa, di domenica (secondo il vostro tempo, per-ché è tanta la sofferenza che provo che potrei dire che sono in questo luogo da dieci anni), abbiamo fatto una gita, l’ultima. Era un giorno radioso, non mi ero mai sentita così bene. Fui invasa da un sinistro sentimento di gioia che durò per tutto il tempo. 
Al ritorno mio marito fu improvvisamente abbagliato da una macchina che veniva dall’altra parte a tutta velocità. Perse il con-trollo. “Jesses!” [“Gesù” in tedesco], mi uscì di bocca con un bri-vido: non era una preghiera, ma un grido. Sentii un dolore lace-rante (niente a confronto di quello che sento ora!), poi persi co-noscenza. 
Che strano! Quel mattino era nato in me, inspiegabilmente, questo pensiero: “Potresti andare ancora una volta a Messa.” Suonava come un’implorazione. Chiaro e risoluto il mio “no” troncò netto il filo di questi pensieri: “Bisogna farla finita una volta per tutte con queste cose. Me ne assumo tutte le conse-guenze.” 
Ora le subisco. Quello che successe sulla terra dopo la mia morte, tu lo sai. Il destino di mio marito, quello di mia madre, 
quello che è successo al mio cadavere e lo svolgimento del mio funerale, mi è noto in tutti i dettagli grazie alle conoscenze natu-rali che abbiamo qui. 
Vediamo in modo nebuloso quello che accade sulla terra, ma conosciamo bene quello che in qualche modo ci riguarda più da vicino. Così vedo anche il luogo in cui soggiorni. 
Nell’istante del mio trapasso uscii bruscamente dal buio. Mi vidi inondata da una luce abbagliante proprio nel luogo in cui giaceva il mio cadavere. Avvenne come a teatro quando si spen-gono le luci e il sipario si alza su uno scenario imprevisto, terri-bilmente luminoso... la scena della mia vita. Come in uno spec-chio vidi la mia anima, vidi le grazie calpestate a partire dalla mia giovinezza fino all’ultimo “no.” Mi sentii come un assassino al quale venisse mostrata la sua vittima: “Pentirmi? Mai! – Vergo-gnarmi? Mai!” 
Tuttavia non potevo resistere allo sguardo di quel Dio che a-vevo respinto. Non mi restava che una sola cosa da fare: fuggire. Come Caino fuggì da Abele, così la mia anima fu scacciata lonta-no dalla vista di quell’orrore. 
Fu il giudizio particolare. Il Giudice invisibile disse: “Lontano da me!” Allora la mia anima, come un’ombra gialla di zolfo, pre-cipitò nel luogo dell’eterno tormento.” 
Così terminava la lettera che Annette mi mandava dall’inferno. 
Recitai lentamente tre Ave Maria. Tutto divenne chiaro: biso-gna aggrapparsi con forza a Lei, alla Beata Madre del Signore, bi-sogna onorare Maria in modo filiale, per non subire la sorte di un’anima condannata a non vedere mai Dio. 
Ancora tremante a causa di quella terribile notte, mi alzai, mi vestii in fretta e scesi di corsa giù per le scale per andare nella cappella. Il cuore mi batteva forte. Le poche pensionanti ingi-nocchiate vicino a me mi guardavano. Potevano pensare che fos-si così agitata per aver sceso di corsa le scale. 
Un’anziana signora ungherese, semplice, provata dalla soffe-renza, gracile come un bambino, miope, ma fervente e piena di esperienza nelle cose spirituali, mi disse sorridendo il pomeriggio in giardino: 
“Signorina, Gesù non vuole essere servito a tutta velocità!” 
Poi capì che qualcosa mi aveva turbato e mi turbava ancora. Per calmarmi mi recitò questi versi di Teresa d’Avila : 
Niente ti turbi, 
Niente ti rattristi, 
Tutto passa, 
Dio non cambia, 
La pazienza 
Tutto raggiunge 
A chi possiede Dio 
Non manca nulla: 
Dio solo basta. 
Mentre me li diceva, amabilmente e non in tono saccente, sembrava che mi leggesse nell’anima. 
“Dio solo basta!” Sì, Lui solo mi deve bastare. Quaggiù e nell’eternità. Lo voglio possedere un giorno nell’altra vita, quali che siano i sacrifici che dovrò fare in questa. 
NON VOGLIO ANDARE ALL’INFERNO!